il giorno più lungo
21.06.2021
[…] dopo questi colloqui dove fuggo
da quel che sono o prima sono stato
per confondermi con l’universo e lì sentire
ciò che mai posso esprimere
né del tutto celare.
Vi è un piacere nei boschi inesplorati, Lord Byron
da quel che sono o prima sono stato
per confondermi con l’universo e lì sentire
ciò che mai posso esprimere
né del tutto celare.
Vi è un piacere nei boschi inesplorati, Lord Byron
Incurante della presunta precisione del calendario artificiale, come solo i grandi eventi naturali sanno essere, il solstizio d’estate nell’emisfero boreale oscilla, generalmente con cadenza quadriennale, tra il 20 ed il 21 giugno. La ricorrenza che segna l’inizio dell’estate porta con sé, tuttavia, il principio della sua fine: a partire dal giorno più lungo dell’anno, infatti, le ore di luce inizieranno lentamente a ridursi, fino a concludere questo percorso ciclico nel giorno del solstizio d’inverno, in una continua rincorsa senza scopo. Il giorno più lungo, prima mostra collettiva organizzata presso CONDOTTO48, nasce dalla volontà di analizzare e approfondire il concetto di tempo e le sue sfumature, per apprezzare la componente lirica insita nel suo ininterrotto scorrimento. Nel giorno del solstizio d’estate, gli artisti fondatori di Condotto 48 Verdiana Bove, Francesca Romana Cicia, Luca di Terlizzi, Emanuele Fasciani e Caterina Sammartino elaborano una mostra costituita da ricordi, connessioni e celebrazioni, fondata sulla comune volontà di raccontare la riflessione e l’omaggio che ciascuno dedica al proprio tempo, attraverso la propria visione poetica.
Onorare una ricorrenza implica una stratificazione di valori associati ad un determinato momento storico. Ciascuna società, infatti, riversa le proprie paure da esorcizzare e i propri ringraziamenti da officiare nella commemorazione di un evento, contribuendo allo sviluppo di una sacralità composita, in cui stessi elementi si fanno portatori di molteplici significati. Proprio il solstizio d’estate ha costituito per molte civiltà antiche un momento da celebrare, in virtù della maggiore fecondità della terra e della possibilità di poter godere della benevolenza della natura. Per omaggiare Il giorno più lungo Luca Di Terlizzi (1998, Tivoli) progetta un osservatorio astronomico inteso come collegamento con la volta celeste, per rievocare il momento della creazione. Il ringraziamento rituale espresso dall’installazione in mostra, tuttavia, deve essere anche inteso come riflessione sulla precarietà della condizione umana e sulle paure ad essa associate. Proprio il confronto con queste fragilità intrinseche presuppone l’accettazione della nostra appartenenza alla Natura attraverso il collegamento con una spiritualità atavica, rintracciabile nelle civiltà più antiche, maggiormente consapevoli dell’importanza di questo legame fondante.
In termini alchemici, l’oro costituisce l’obiettivo più alto perseguibile e si identifica con la scoperta della verità. Solo una ristretta cerchia di iniziati, tuttavia, conosce l’esatta sequenza di passaggi necessari a depurare materiali corrotti, per raggiungere la purezza del metallo più nobile. Durante il processo, l’alchimista lavora direttamente la materia bruta, per mutarne la forma e la sua composizione strutturale, al fine di acquisire uno stato di consapevolezza superiore. Uno dei miti più famosi sul valore e la scoperta della verità è ambientato nella zona più profonda ed oscura di una caverna. L’autore del mito (rappresentato da Raffaello nell’atto di indicare il cielo nella Stanza della Segnatura) cerca di evidenziare come il soffermarsi a degli stadi intermedi di conoscenza possa essere fonte di appagamento, ma soprattutto di corruzione, considerando la distanza ontologica dalla Verità che vi è implicita. L’installazione di Emanuele Fasciani (1994, Roma), partendo da un evidente riferimento al mito della caverna, indaga proprio il senso della ricerca del Vero e della sua comunicazione, attraverso la resa problematica del rapporto tra contenuto e contenitore del manufatto artistico.
Può accadere che, al cospetto di un’imponente quercia, si provi un senso di muto rispetto per la forza del suo massiccio tronco. Quasi non sembra reale immaginare che questo spettacolo naturale, sia il risultato di un piccolo seme piantato chissà quando, chissà da chi. Può accadere, tuttavia, che si conosca il momento e l’autore della piantumazione e che la quercia in questione sia legata ad un evento particolarmente importante, come una nascita. Può anche accadere che a questo primo filo invisibile, cucito da mani amorevoli, se ne affianchino gradualmente altri, intrecciatisi con il primo nel corso degli anni, che creino un saldo legame tra le due vite. Una tale consonanza e reciprocità offre, inevitabilmente, i propri frutti migliori proprio sotto i rami protettivi dell’imponente quercia. La ricerca di Caterina Sammartino (1997, Colleferro) si pone come una corrispondenza lirica tra Natura e artista, nella quale la prima fornisce gli strumenti che la seconda compone per esternare le proprie emozioni. A caratterizzare le opere, testimoni di questa intima confidenza, è la tragicità intrinseca in uno scambio che non può che essere unidirezionale.
Il processo compiuto dal nostro cervello per costruire un ricordo è estremamente complesso, ma caratterizzato da quattro passaggi fondamentali: codificazione, consolidamento, immagazzinamento e richiamo. Solo in seguito a queste fasi, il ricordo in questione entrerà a far parte della memoria a lungo termine. Alla complessità di questo processo di formazione, si associa la quasi-impossibilità di stabilire in maniera esatta, quanto un particolare ricordo possa condizionare le nostre esperienze e scelte future. Oggetti personali testimoni di un momento particolarmente significativo, assorbono in silenzio e si impregnano di valori emotivi a loro sconosciuti ma intensi, e possono imprimersi nella mente al pari dei protagonisti del ricordo stesso. La ricerca di Verdiana Bove (1996, Roma) si concentra sulla resa pittorica di momenti intimi e segnanti, realizzati attraverso una ricercata stratificazione materica. La rappresentazione rarefatta di immagini e ricordi personali, resi con tratti essenziali, scaturisce da una concreta necessità espressiva, nella quale risiede una profonda emotività.
La contrapposizione manichea tra luce ed oscurità è un elemento particolarmente presente in molte culture e funge da presupposto per la separazione visiva tra bene e male. Uno degli insegnamenti più importanti della Natura, tuttavia, risiede nella consapevolezza che nulla possa dirsi realmente sconnesso da ciò che lo circonda: le ombre, generate dalla fusione di opposti quali illuminazione e buio, rappresentano proprio una puntuale conferma di questo principio fondamentale. L’ammirazione e le suggestioni suscitate dalle ombre derivano proprio dall’incontro tra chiarezza e oscurità e dalla condizione intermedia che le caratterizza: queste, infatti, scomparirebbero al venire meno del fecondo incontro antitetico che le ha generate. Francesca Romana Cicia (1994, Roma) celebra questo stato liminare della realtà attraverso un’installazione concepita come una vera e propria stanza del pensiero, che permetta di ricalcare il flusso mentale ed il processo immaginativo della mente umana. A caratterizzare l’ambiente è una temporalità alterata, nata dall’interruzione del flusso cronologico tradizionale in favore di una dimensione onirica, regolata da un ritmo proprio.
Onorare una ricorrenza implica una stratificazione di valori associati ad un determinato momento storico. Ciascuna società, infatti, riversa le proprie paure da esorcizzare e i propri ringraziamenti da officiare nella commemorazione di un evento, contribuendo allo sviluppo di una sacralità composita, in cui stessi elementi si fanno portatori di molteplici significati. Proprio il solstizio d’estate ha costituito per molte civiltà antiche un momento da celebrare, in virtù della maggiore fecondità della terra e della possibilità di poter godere della benevolenza della natura. Per omaggiare Il giorno più lungo Luca Di Terlizzi (1998, Tivoli) progetta un osservatorio astronomico inteso come collegamento con la volta celeste, per rievocare il momento della creazione. Il ringraziamento rituale espresso dall’installazione in mostra, tuttavia, deve essere anche inteso come riflessione sulla precarietà della condizione umana e sulle paure ad essa associate. Proprio il confronto con queste fragilità intrinseche presuppone l’accettazione della nostra appartenenza alla Natura attraverso il collegamento con una spiritualità atavica, rintracciabile nelle civiltà più antiche, maggiormente consapevoli dell’importanza di questo legame fondante.
In termini alchemici, l’oro costituisce l’obiettivo più alto perseguibile e si identifica con la scoperta della verità. Solo una ristretta cerchia di iniziati, tuttavia, conosce l’esatta sequenza di passaggi necessari a depurare materiali corrotti, per raggiungere la purezza del metallo più nobile. Durante il processo, l’alchimista lavora direttamente la materia bruta, per mutarne la forma e la sua composizione strutturale, al fine di acquisire uno stato di consapevolezza superiore. Uno dei miti più famosi sul valore e la scoperta della verità è ambientato nella zona più profonda ed oscura di una caverna. L’autore del mito (rappresentato da Raffaello nell’atto di indicare il cielo nella Stanza della Segnatura) cerca di evidenziare come il soffermarsi a degli stadi intermedi di conoscenza possa essere fonte di appagamento, ma soprattutto di corruzione, considerando la distanza ontologica dalla Verità che vi è implicita. L’installazione di Emanuele Fasciani (1994, Roma), partendo da un evidente riferimento al mito della caverna, indaga proprio il senso della ricerca del Vero e della sua comunicazione, attraverso la resa problematica del rapporto tra contenuto e contenitore del manufatto artistico.
Può accadere che, al cospetto di un’imponente quercia, si provi un senso di muto rispetto per la forza del suo massiccio tronco. Quasi non sembra reale immaginare che questo spettacolo naturale, sia il risultato di un piccolo seme piantato chissà quando, chissà da chi. Può accadere, tuttavia, che si conosca il momento e l’autore della piantumazione e che la quercia in questione sia legata ad un evento particolarmente importante, come una nascita. Può anche accadere che a questo primo filo invisibile, cucito da mani amorevoli, se ne affianchino gradualmente altri, intrecciatisi con il primo nel corso degli anni, che creino un saldo legame tra le due vite. Una tale consonanza e reciprocità offre, inevitabilmente, i propri frutti migliori proprio sotto i rami protettivi dell’imponente quercia. La ricerca di Caterina Sammartino (1997, Colleferro) si pone come una corrispondenza lirica tra Natura e artista, nella quale la prima fornisce gli strumenti che la seconda compone per esternare le proprie emozioni. A caratterizzare le opere, testimoni di questa intima confidenza, è la tragicità intrinseca in uno scambio che non può che essere unidirezionale.
Il processo compiuto dal nostro cervello per costruire un ricordo è estremamente complesso, ma caratterizzato da quattro passaggi fondamentali: codificazione, consolidamento, immagazzinamento e richiamo. Solo in seguito a queste fasi, il ricordo in questione entrerà a far parte della memoria a lungo termine. Alla complessità di questo processo di formazione, si associa la quasi-impossibilità di stabilire in maniera esatta, quanto un particolare ricordo possa condizionare le nostre esperienze e scelte future. Oggetti personali testimoni di un momento particolarmente significativo, assorbono in silenzio e si impregnano di valori emotivi a loro sconosciuti ma intensi, e possono imprimersi nella mente al pari dei protagonisti del ricordo stesso. La ricerca di Verdiana Bove (1996, Roma) si concentra sulla resa pittorica di momenti intimi e segnanti, realizzati attraverso una ricercata stratificazione materica. La rappresentazione rarefatta di immagini e ricordi personali, resi con tratti essenziali, scaturisce da una concreta necessità espressiva, nella quale risiede una profonda emotività.
La contrapposizione manichea tra luce ed oscurità è un elemento particolarmente presente in molte culture e funge da presupposto per la separazione visiva tra bene e male. Uno degli insegnamenti più importanti della Natura, tuttavia, risiede nella consapevolezza che nulla possa dirsi realmente sconnesso da ciò che lo circonda: le ombre, generate dalla fusione di opposti quali illuminazione e buio, rappresentano proprio una puntuale conferma di questo principio fondamentale. L’ammirazione e le suggestioni suscitate dalle ombre derivano proprio dall’incontro tra chiarezza e oscurità e dalla condizione intermedia che le caratterizza: queste, infatti, scomparirebbero al venire meno del fecondo incontro antitetico che le ha generate. Francesca Romana Cicia (1994, Roma) celebra questo stato liminare della realtà attraverso un’installazione concepita come una vera e propria stanza del pensiero, che permetta di ricalcare il flusso mentale ed il processo immaginativo della mente umana. A caratterizzare l’ambiente è una temporalità alterata, nata dall’interruzione del flusso cronologico tradizionale in favore di una dimensione onirica, regolata da un ritmo proprio.
Photo by Francesca Pascarelli